Speak

La violenza istituzionale

// Verena De Monte //
quando la dignità delle donne viene lesa da chi
la dovrebbe difendere
Aurora* è una donna forte e determinata. Dopo aver denunciato il suo compagno per maltrattamenti, ha affrontato un iter doloroso e sfiancante per ottenere giustizia. Il suo non è un caso isolato: per molte donne la violenza inizia a casa e continua in tribunale. In riferimento alla condotta delle istituzioni si parla di vittimizzazione secondaria, una realtà sulla quale è necessario aprire gli occhi.
La doppia violenza
Quando Aurora denuncia il padre di sua figlia per maltrattamenti non immagina di essere all’inizio di una lotta faticosissima che durerà 8 anni. “Ero impaurita e ignara di quello che mi aspettava, ma avevo fiducia nelle istituzioni.”
Purtroppo, come denunciato nella Relazione sulla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli, approvata in aprile dalla Commissione Parlamentare di inchiesta sul femminicidio, questa fiducia nelle istituzioni spesso viene tradita. Si parla di vittimizzazione secondaria, una seconda violenza perpetrata sulla donna da parte delle istituzioni che “si realizza quando le autorità chiamate a reprimere il fenomeno della violenza non adottano nei confronti della vittima le necessarie tutele” facendole “rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta.” Spesso questa forma di violenza inizia con lo screditamento della donna e con il giudizio sulla sua vita.
Nel caso di Aurora, nonostante le forze dell’ordine e il perito abbiano accertato le violenze subite, le udienze in tribunale si sono concentrate soprattutto su di lei con l’intento di screditarla. “Anche essere autonoma e forte ha giocato a mio sfavore perché non corrispondevo allo stereotipo della donna vittima”, spiega. Poiché l’affidamento della figlia è stato assegnato principalmente a lei, veniva monitorata costantemente e doveva dimostrare di essere una madre brava e adatta. “Ho vissuto per anni con la paura che mi togliessero mia figlia.”
Se la donna è anche madre
L’esperienza di Aurora è diffusa. La minimizzazione della violenza e l’attenzione verso la condotta della vittima assumono proporzioni preoccupanti quando è in gioco l’affidamento dei*lle figli*e.
La Convenzione di Istanbul, strumento internazionale giuridicamente vincolante per contrastare la violenza sulle donne, obbliga gli Stati che l’hanno ratificata a intervenire contro la vittimizzazione secondaria. L’Italia l’ha ratificata nel 2013 ma il GREVIO (organismo che monitora l’applicazione della Convenzione) denuncia che questa è ancora in gran parte inattuata ed evidenzia che, in materia di affidamento, non può essere tollerato che il tribunale ordinario condanni l’uomo per le violenze mentre il tribunale dei minori lo consideri un genitore adeguato.
Racconta Aurora che “è stato messo in ombra il fatto che ci sia stato un carnefice e una vittima e per l’affidamento siamo stati giudicati come una normale coppia che si separa. Il giudice ha stabilito che per il bene di mia figlia il padre doveva essere presente nella sua vita.”
L’emanazione di provvedimenti stereotipati per cui un*a bambino*a deve necessariamente avere rapporti con il padre viene fortemente criticato dal GREVIO, che denuncia il sistema in atto, il quale “piuttosto che offrire protezione alla vittima e ai suoi figli sembra ritorcersi contro le madri che cercano di proteggere i loro bambini.”
Denunciare, nonostante tutto
La violenza istituzionale può indurre una donna a rientrare nel rapporto con il maltrattante non appena verifichi quanto sia doloroso e complicato uscirne davvero. “Ci sono stati dei momenti di delusione e sconforto,” ammette Aurora. Sapeva che andare fino in fondo era la cosa giusta da fare però allo stesso tempo si rendeva conto di quante cose non funzionavano nei luoghi che avrebbero dovuto tutelarla. “Il mio consiglio è comunque sempre quello di denunciare”, dice convinta “ma le istituzioni devono iniziare a fare la loro parte.” Devono cioè fare in modo che le donne non evitino di denunciare per la paura – fondata – di perdere i*le figli*e, di venire esposte e colpevolizzate.



Oltre alla mancata attuazione della Convenzione di Istanbul, secondo la Commissione Parlamentare di inchiesta sul femminicidio la formazione degli operatori del settore – assistenti sociali, periti, psicologi, avvocati, giudici ecc. – in materia è carente. Questa è anche l’esperienza di Aurora, che avrebbe avuto bisogno di trovarsi di fronte a personale dotato di professionalità e umanità. “Purtroppo, a volte mi è capitato di assistere all’arroganza di chi non era specializzato sulla questione ma aveva il compito di decidere per me, ledendo così anche la mia autodeterminazione”, ricorda con amarezza.
Sostenere la libertà delle donne
La Relazione della Commissione ha acceso un faro all’interno di istituzioni e tribunali per interpretare correttamente la violenza contro le donne nelle cause di separazione, per aumentare la consapevolezza sulla violenza istituzionale e per abbattere stereotipi e pregiudizi che portano a distorsioni giudiziarie.


Ma questa Relazione e l’auspicata attuazione della Convenzione di Istanbul secondo Aurora non bastano. Per ricevere il giusto sostengo, sarebbero necessarie reti di mutuo aiuto tra vittime. “Se qualcuna con la mia stessa esperienza mi avesse dato consigli, per me sarebbe stato molto utile”, spiega Aurora, che propone inoltre un questionario anonimo per permettere alle donne di valutare il lavoro dei servizi e delle istituzioni e proporre dei miglioramenti. Dar voce alle donne coinvolte significa anche tener conto della loro capacità di giudizio. Aurora non sempre ha seguito i consigli di chi la assisteva e ha avuto la forza di scegliere autonomamente. “Una donna ha bisogno di empatia, di informazioni corrette e di strumenti che la mettano in condizioni di poter agire in autonomia e decidere da sola.”

* nome di fantasia

ëres young

Was ist ein Frauenleben wert?

// Kathinka Enderle //
Weltweit schockiert aktuell vermutlich kein Tod so sehr wie der von Mahsa Amini, einer 22-jährigen Jura-Studentin aus dem Iran. Ihr Tod war der tragische Anfang einer Frauenrechtsbewegung, deren Hintergrund seit Jahrzehnten viel tiefer liegt.
Mahsa Amini besuchte mit ihrer Familie ihren Bruder in Teheran, als sie gewaltsam von der Sittenpolizei in einen Polizeiwagen verfrachtet wurde und man sie zur „Umerziehung“ und „Korrektur“ brachte. Zwei Stunden nach ihrer Festnahme wurde sie in das Krankenhaus von Kasra gebracht und lag dort drei Tage im Koma, bis sie verstarb. Der Grund für ihre Festnahme war „das falsche/lockere Tragen ihres Hijabs“, da man ihren Haaransatz sehen konnte. Von der Polizei wurde ihr in der eigens vorgesehenen Anstalt so lange auf den Kopf geschlagen, bis sie Hirnblutungen erlitt und schließlich ihren Verletzungen erlag. Der Staat bestreitet die Verursachung ihres Todes und nennt als Grund dafür eine Vorerkrankung. Ein veröffentlichter CT-Scan zeigt jedoch deutlich einen Schädelbruch, auch die sichtbaren Blutungen aus ihrem Ohr und die blauen Flecken unter ihren Augen sind ein eindeutiges Zeichen für die Gewalt, welche die Polizei ihr während ihrer Festnahme skrupellos zufügte.
Die junge Iranerin ist nicht die einzige, welche die Innenräume dieser Haftanstalt zu sehen bekam. Vieles, was hierzulande zu einem normalen Jugendleben dazu gehört, wird im Iran wegen „unmoralischem Verhalten“ bestraft. Partys besuchen, Alkohol trinken und mehr führten dazu, dass zahlreiche junge Iraner*innen in Haftanstalten verhört, ausgepeitscht und vergewaltigt wurden. Kommt es dabei zu Todesfällen, sorgt die Sittenpolizei dafür, dass nicht nur die Familien nicht mehr reden – auch die Leichen sollen nicht mehr sprechen. Das Bedrohen der Familien oder das Zubetonieren der leblosen Körper (für die Vernichtung von Beweisen) gelten als das Standard-Prozedere der Polizei. Aminis Familie widersetzte sich und begrub ihre Tochter in Saqqez, Kurdistan.
Seit ihrem Tod protestierten zahlreiche Iraner*innen im eigenen Land sowie auch international. Viele iranische Schauspielerinnen und Prominente solidarisierten sich und posteten im Internet Videos, in denen sie sich ihre Haare abschnitten. Der Ruf nach Transparenz und die Forderungen nach Freiheit, Gerechtigkeit und dem Ende des Patriarchats wurden immer größer. Daraufhin beschloss die iranische Regierung, das Internet abzuschalten. Ab diesem Moment fielen noch mehr Schüsse auf Demonstrant*innen, Häuser wurden gestürmt, Menschen entführt und verhaftet. Videos wurden trotz allem veröffentlicht, welche klar zeigen, wie die Polizei Menschen durch die Straßen schleift. Der Versuch, das Patriarchat zu beenden, lässt Blut auf Irans Straßen fließen.
Die Proteste wurden zu einer Bewegung, in der es ums (Auf)Atmen geht: vor allem für die Frauen, die durch die Regierung seit mehr als 40 Jahren unterdrückt werden. Irans Volk ist vereint im Zorn und resolut gegenüber ihren Postulaten. Seit dem 16. September führen Frauen die Proteste an, verbrennen ihre Hijabs als symbolisches Zeichen gegen die männerdominierte Herrschaft, durch die sie seit 1979 unterdrückt werden.
Auch hier in Südtirol solidarisierte man sich mit den iranischen Frauen, wie beim Frauenmarsch – Donne in Marcia am 15.Oktober 2022.

Es ist eine vielseitige Vergangenheit, in der viel aufgearbeitet werden muss. Begriffe wie Privileg, Macht und Ungerechtigkeit dürfen auch uns Südtiroler*innen nicht länger unbekannt bleiben. Im Schmerz, der Trauer und dem Zorn sollten Frauen, wenn eine Weitere so erbarmungslos genommen wird, vereint sein. Die Revolution im Iran ist ein Zeichen des Feminismus. Gesichter und Geschichten verändern sich, aber der Ruf nach Freiheit bleibt unmissverständlich – im Iran und auf der gesamten Welt.