Le donne scioperano

Se le nostre vite non valgono ci fermiamo!

// Verena De Monte //
Cosa succederebbe se anche per un solo giorno le donne di tutto il globo si astenessero dai lavori che svolgono – salariati e non salariati, dentro e fuori dalle mura domestiche? La risposta è semplice: si fermerebbe il mondo.
La „huelga“ in Catalogna, 8 marzo 2017, primo sciopero femminista e transfemminista globale. © Santiago Sito / flickr
Le donne scioperano
A ispirare la nascita dell'8 marzo, la giornata internazionale della donna, è stato anche un grande sciopero delle camiciaie di New York tra il 1909 e il 1910. E questa non è stata l’unica occasione in cui le donne hanno usato lo sciopero come strumento di lotta.
L’esempio forse più noto, anche a causa del successo avuto in termini di partecipazione e di risultati ottenuti, è lo sciopero delle donne islandesi del 1975. Stufe di essere pagate meno degli uomini e con la pretesa di ottenere pari diritti, il 90% delle donne aderirono a una giornata di sciopero, rifiutandosi di lavorare dentro e fuori casa. L’intero paese si bloccò: le scuole, le fabbriche, i negozi e molti altri luoghi rimasero chiusi. L’anno successivo il parlamento islandese approvò la legge per garantire pari salari e 5 anni dopo fu eletta la prima presidente donna del mondo.
Il 14 giugno 1991 è stata la volta dello sciopero femminile in Svizzera. Fino a mezzo milione di donne aderirono con azioni di vario genere, rivendicando la parità salariale, l'uguaglianza nelle assicurazioni sociali e la fine delle discriminazioni e delle molestie sessuali.
A riproporre questa forma di lotta ai giorni nostri sono state le femministe polacche. In seguito a una proposta di legge che mirava a vietare ogni forma di aborto, il 3 ottobre 2016 hanno organizzato lo “Sciopero delle donne nazionale”. Più di 150mila donne invece di lavorare, andare all’università, prendersi cura della prole ecc., sono scese in strada a protestare. Questo sciopero ha avuto un’eco mondiale, tanto che meno di un mese dopo, in Argentina, donne e femministe hanno scelto di scioperare in seguito a un femminicidio particolarmente cruento ai danni di una sedicenne. La protesta per porre fine alla violenza sulle donne ha preso il via al grido militante di “Ni una menos!” (non una di meno) che ha raggiunto prima gli altri paesi del Sudamerica e poi il resto del mondo.
Lo sciopero diventa globale
Sulla scia di questa nuova ondata di sdegno, le femministe che prima di allora avevano portato avanti una serie di azioni su scala nazionale, hanno deciso di scioperare insieme e l’8 marzo 2017 hanno proclamato il primo Sciopero internazionale delle donne. Hanno aderito donne di circa 60 paesi del mondo che, l’anno successivo, sono diventati più di 70. Anche per l’8 marzo scorso è stato indetto lo sciopero femminista e transfemminista1 dalla rete mondiale "Ni una menos" e la rete nazionale italiana di NUDM (non una di meno) ha lanciato un appello verso lo sciopero globale e diffuso un vademecum che spiega come aderirvi.
L’unione di persone e lotte
Un punto centrale dello sciopero femminista è la messa in discussione di ciò che viene considerato “lavoro”. Vi è un rifiuto consapevole di limitare questa categoria al lavoro salariato e viene dunque allargata la portata dello sciopero stesso: le donne non si astengono solo dal lavoro per il quale percepiscono uno stipendio, ma anche da quello che svolgono gratuitamente, ovvero il lavoro domestico, di educazione e di cura. È un modo per rendere visibile il ruolo indispensabile del lavoro non pagato. E per quanto riguarda quello salariato, le attiviste non si concentrano soltanto su salario e ore di lavoro, ma denunciano con forza anche le discriminazioni, le violenze e le molestie sessuali, sul luogo di lavoro e non. In altre parole, non si sciopera “solo” contro le condizioni di lavoro, come negli scioperi “classici” ma contro il dominio maschile e gli effetti del patriarcato in generale. A subire questi effetti non sono solo le donne. Per includere nella protesta tutte le persone dominate, sfruttate e discriminate, lo sciopero delle donne si “reinventa” e cerca di unire le forze con i movimenti antirazzisti, ambientalisti e per i diritti di chi migra e di chi lavora. Se dunque "non una di meno"è la parola d’ordine dello sciopero femminista contro la società globale della violenza e dello sfruttamento, è anche la possibilità per una presa di parola e di potere di tutti quei soggetti che cercano un modo per opporsi alla violenza del presente.
Limiti e potenziale
Come ogni strumento di lotta, anche quello dello sciopero presenta dei limiti e finora non ha coinvolto grandi masse di donne in tutto il mondo. Le difficoltà sono innegabili: le donne sono particolarmente ricattabili e soggette a violenza e svolgono lavori di cura fondamentali e difficilmente evitabili o delegabili. Inoltre, finora lo sciopero generale internazionale dell’8 marzo è stato proclamato da sindacati minori e di settore, mentre quelli confederali come Cgil, Cisl e Uil non hanno aderito e continuano colpevolmente a ignorare questo movimento femminile di protesta e cambiamento.
Come sottolineano Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser nel loro manifesto "Femminismo per il 99%", nonostante tutto – COVID compreso – negli ultimi anni decine di migliaia di donne, uomini, precarie e migranti di ogni genere sono scesi in piazza in nome dello sciopero femminista e hanno preso parte al suo momento globale, rivendicando “le proprie radici nelle lotte storiche per i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici e per la giustizia sociale.” Le autrici sono convinte che, “rompendo l’isolamento di muri domestici e simbolici, gli scioperi dimostrano l’enorme potenziale politico del potere delle donne.” Il potere di chi, col lavoro salariato e con quello non pagato, sostiene il mondo.
1 "Transfemminista“ in quanto si includono tutte le persone discriminate a causa del loro genere, comprese le donne non assegnate femmine alla nascita, le persone transessuali, gender fluid ecc.
Sciopero femminile in Svizzera, il 14. Juni 1991 © ETH-Bibliothek, via Wikimedia Commons

Respekt

Sie sind der Schlüssel

// Kathinka Enderle //
Eigentlich weiß unsere Gesellschaft, wie sie sich respektvoll verhalten kann. Und trotzdem kommt der Respekt immer öfters abhanden.
© istockphoto
Es war ein Freitagabend. Die Schlange an der Supermarktkasse wurde länger. Jugendliche, die freudig lachten und kaum die nächste Party erwarten konnten; ein Geschäftsmann, der auf seinem Handy tippte und endlich nach Hause wollte; eine Mutter, die mit ihrem Neugeborenen alle Hände voll zu tun hatte und ein Pärchen, das sichtlich gerade vom Sport kam – alle warteten geduldig auf den alten Herrn an der Kasse, der versuchte, seine Lebensmittel in die Einkaufstasche zu packen. Seine Hände zitterten, auf seinen Gehstock konnte er sich kaum noch stützen und Schweißperlen glänzten auf seiner Stirn. Während die wenigsten großartig auf den alten Mann achteten, schaute die Kassiererin zu sehr auf sein Verhalten. Kurzerhand sprang sie von ihrem Stuhl auf, riss ihm seine Tasche aus der Hand und zischte ihn an: „Das Geschäft schließt bald und wir haben nicht den ganzen Abend Zeit! Ich will Feierabend machen.“ Sie packte seinen Einkauf energisch ein, achtete nicht darauf, ob sie Essen zerdrückte und schmiss ihm die Tasche wieder zurück.
Während sich der alte Herr mit gekrümmter Körperhaltung davon machte und die gesamte Einkaufsreihe schockiert darüber war, was da gerade passiert war, kaute die Kassiererin gemütlich auf ihrem Kaugummi herum und setzte ihre Arbeit fort.
Respektlosigkeit ist kein Einzelfall
Meist liest man über solche Vorfälle wie den geschilderten aus dem Supermarkt mit einer Wut im Bauch und einem Kopfschütteln. Man versucht diese Geschichten in eine Schublade zu stecken, denkt sich, es wäre ein Einzelfall und geht seinem Alltag wieder nach. Doch denken Sie weiter: Wie viele Anekdoten aus dem Alltag können Sie erzählen, in denen Sie Respektlosigkeit beobachtet oder vielleicht sogar selbst erfahren haben?
Überlegen wir gemeinsam: Wie oft drängelte sich jemand schon vor Sie und warf Ihnen womöglich sogar noch ein freches „chill doch“ zu? Wann hupte das letzte Mal jemand hinter Ihnen, weil Sie an der grünen Ampel nicht schnell genug losfuhren? Wann schnappte Ihnen jemand den Parkplatz vor der Nase weg? Oder vielleicht den Sitzplatz im Bus? Wie oft rempelten Sie Menschen beim Feiern an, ohne dabei auf die Umgebung zu achten oder ob jemand verletzt werden könnte? Wann hörten Sie das letzte Mal, wie sich Kinder und Jugendliche gegenseitig beleidigten? Und noch schlimmer, wann wurden Sie zuletzt beleidigt oder gar belästigt?
Man nimmt an, dass die Menschen in unserer Gesellschaft wissen, wie sie sich untereinander verhalten sollten. Und trotzdem kommt der Respekt immer öfters abhanden.
Respekt ist Einstellungssache
In den vergangenen und gegenwärtigen Generationen geht Respekt Hand in Hand mit einer neuen, vielfältigeren Gesellschaft. Ein respektvolles Verhalten ist für unsere Gesellschaft von grundlegender Wichtigkeit, damit wir als Menschen wachsen und gedeihen können. Respekt entsteht nicht, weil man bei jeder Kommunikation seinen Mitmenschen mitteilt: „Respektiere mich!“, sondern weil es die korrekte Einstellung gegenüber anderen Menschen ist.
In der Psychologie wird zwischen zwei Arten von Respekt unterschieden:
Es gibt einerseits den vertikalen Respekt, den man Menschen für besondere Leistungen gebührt, beispielsweise für den Sieg einer begehrten Trophäe oder einen akademischen Abschluss. Viel wichtiger ist aber der horizontale Respekt, der die Achtung vor seinen Mitmenschen meint. Sprich, dass man andere so behandelt, wie man selbst behandelt werden möchte.
…und eine wertvolle und ehrenhafte Eigenschaft
Respekt ist eine wertvolle und ehrenhafte Eigenschaft, die in so ziemlich jeder Interaktion mit dem Leben zu tragen kommt – sei es persönlich, online oder auch mit Tieren, Gegenständen und Pflanzen. Dabei setzt Respekt vor Lebewesen den Frieden voraus und fördert ihn zugleich. Wahrer Friede ist nicht nur die Abwesenheit von Krieg und die Aufrechterhaltung eines Gleichgewichts der Kräfte zwischen Gegnern. Frieden kann nicht erreicht werden, wenn der Schutz der Person, von Gütern, die freie Kommunikation, die Achtung der Würde eines Menschen sowie von Völkern als auch die beharrliche Umsetzung von Geschwisterlichkeit gewährt wird. Unsere chaotische Welt ruft uns immer dringlicher dazu auf, inmitten der gegenwärtigen Bedrohungen des Friedens und des Respekts voreinander ein empathisches Verhalten an den Tag zu legen.
Jede*r hat Anspruch auf Respekt
Jeder Mensch sollte unabhängig seiner ethnischen Zugehörigkeit, seinem Platz in der Gesellschaft, seinem Geschlecht, Alter, der Religion oder Hautfarbe Anspruch auf Respekt haben. Die Idee, sich Respekt verdienen zu müssen, ist zwar weit verbreitet, jedoch nicht ganz unproblematisch. Wenn es dem Einzelnen eine Last aufbürdet, sich selbst beweisen zu müssen, anstatt ihm seinen innewohnenden Wert und seine Würde als Menschen anzuerkennen, wird das Ziel von Respekt weit verfehlt. Jede*n zu respektieren bedeutet nicht, dass wir jede*n mögen müssen, sondern viel mehr, dass wir jede*n mit Höflichkeit und Anstand behandeln sollten.
Ohne Respekt können Menschen anders behandelt werden und wurden auch schon anders behandelt, nur weil sie so sind, wie sie sind.
Ansichten, Kulturen und Generationen sind eine Bereicherung
Denken Sie an den alten Mann. Vermutlich war es ihm wichtig, in seinem hohen Alter seine Einkäufe noch selbstständig zu erledigen. Stellen Sie sich vor, wie es ihm nach dieser Erfahrung ging. Er wurde übergriffig und respektlos behandelt, nur weil er so ist, wie er eben ist: aufgrund seines hohen Alters etwas langsamer und schwächer.
Obwohl es sich im Falle des Herrn und der Kassiererin um eine Situation handelt, die sprachlos macht, zeigt es Südtirols Vielfältigkeit. Wir leben in einer Provinz voller Menschen mit unterschiedlichen Ansichten, Kulturen, die uns bereichern, und Generationen, die sich unterscheiden. Wie ist es für Sie, wenn Sie sich mit Menschen mit unterschiedlichen Ansichten, verschiedener Generation oder unterschiedlicher Herkunft unterhalten? Gelingt es Ihnen, in Ihrem eigenen Verhalten und dem Ihres Gegenübers zu beobachten, wie wenig Vorurteile oder gar Feindschaften man rechtfertigen kann?
Respekt ist der Schlüssel für ein gutes Miteinander
Soziolog*innen, Politiker*innen und Wissenschaftler*innen setzen sich seit Jahren mit der Frage auseinander, wie wir als Gesellschaft ein gutes Miteinander gestalten können, sodass der Zusammenhalt, Respekt und die Empathie zwischeneinander wieder gestärkt werden können. Der Einsatz jeder Einzelperson ist dafür überaus wichtig, denn jede*r Einzelne zählt und kann der Schlüssel sein, damit sich ein anderer Mensch besser, respektiert und gesehen fühlt.
Nelson Mandela sagte einst: „Frei zu sein bedeutet nicht nur, seine eigenen Fesseln zu lösen, sondern ein Leben zu führen, das auch die Freiheit anderer respektiert und fördert.“
Welchen Beitrag können Sie leisten, um nicht nur sich selbst gegenüber frei zu sein, sondern auch für ein gutes Miteinander zu sorgen?
Wie ist es für Sie, wenn Sie sich mit Menschen mit unterschiedlichen Ansichten, verschiedener Generation oder unterschiedlicher Herkunft unterhalten? © Alexandre Debiève / Unsplash