Le voci delle nuove femministe

Liscià – donne che raccontano donne

// Sarah Trevisiol //
Liscià è un progetto della cooperativa Officine Vispa officinevispa.com © officinevispa.com
Liscià è una piattaforma di incontro online e offline che intenta di dare risalto alle storie e ai vissuti delle donne, promuovendo una cultura di genere che valorizzi le specificità e differenze di ognuna. L’idea è quella di indagare la complessità degli stereotipi di genere grazie a narrazioni multimediali, incontri con personalità di rilievo e laboratori, con lo scopo preciso di proporre modelli alternativi a quelli sessisti e patriarcali. Dopo aver trattato il tema della casa, del mondo lavorativo e del desiderio, quest’anno si esplora il tema del linguaggio nelle sue diverse sfumature, cercando di capire come la lingua possa essere uno spazio in cui le differenze possano convivere senza avere posizioni di subalternità.
Il progetto Liscià è stato lanciato quattro anni fa dalla Cooperativa sociale Officine Vispa di Bolzano in risposta ad un bando istituito dal Comune di Bolzano a favore dell’empowerment femminile. La cooperativa, che da anni favorisce la partecipazione attiva delle comunità locali ai Beni Comuni, si impegna ora a migliorare la qualità della vita delle persone proprio grazie a dialoghi che promuovano le pari opportunità fra generi.
Rachele Sordi, educatrice della cooperativa e femminista attivista, racconta quali sono a suo avviso le nuove sfide di chi, come lei, è impegnata a esplorare le varie sfaccettature della cultura di genere. “Secondo me alcune nuove forme di femminismo sono intente a superare il concetto di genere come costrutto sociale binario, ad oltrepassare il dualismo rigido fra maschile e femminile, per riconoscere differenti posizionamenti di genere, per esempio le persone transgender1 o non binarie.”
Un’altra grande sfida dei nuovi femminismi è ampliare il concetto stesso di donna. Sono tante le identità femminili ed ognuna ha diritto ad un’equa rappresentanza. D'altronde il femminismo radicale e decoloniale odierno combatte ogni forma di gerarchizzazione, quindi oltre che a decostruire il sistema patriarcale dobbiamo impegnarci a decostruire il sistema eterosessuale di cui le donne etero beneficiano, o il sistema razziale di cui le donne bianche beneficiano, per evitare forme di dominazione tra donne. L’intento è cercare di non marginalizzare a seconda di identità di genere, razza, orientamento sessuale, provenienza etnica o religiosa, disabilità, età, ecc. Dobbiamo impegnarci affinché non siano sempre solo le donne bianche occidentali abili cis-gender2 eterosessuali di classe borghese a parlare in nome di tutte, a godere di maggiori privilegi, ma che ognuna nella sua specificità possa sentirsi in una posizione di non sub-alternità, rappresentata, partecipe.”

Alle Officine Vispa e nel progetto Liscià lavorano a agiscono donne con background molto diversi. Grazie alla loro partecipazione attiva è possibile favorire un dialogo aperto e alla pari fra tutt*.
La strada è ancora lunga, però l’invito è aperto a tutt* a proporre tematiche attinenti alle diverse forme di cultura di genere. Così, per esempio, ha già avuto luogo un incontro sulla mascolinità tossica, molto partecipata proprio da un pubblico maschile.
La soluzione sta sempre nell’ascolto, nell’ascolto attivo e rispettoso di chi vive una marginalizzazione, qualunque essa sia. Posizionarsi contro le diverse forme di gerarchie e disuguaglianze sociali e riconoscere il proprio posizionamento in questo sistema di potere, è il primo passo per poter avviare un cambiamento, una svolta di pensiero e di azioni che contrasti le disuguaglianze e favorisca l’occupazione dello spazio pubblico di una miriade di voci diverse, alla pari fra loro.
1 transgender: persone che non si identificano con il sesso biologico assegnatole alla nascita
2 cis-gender: persone che si identificano con il sesso biologico assegnato loro alla nascita
Rachele Sordi © officinevispa.com

Think

Mut zur Lücke

// Bettina Conci //
„Und, was ist dein Pronomen?“ Was in englischsprachigen Ländern durchaus als woker Small Talk gilt, mutet im Südtiroler Raum noch etwas exotisch an. Deutschlehrer*innen allerorts klatschen zwar verzückt in die Hände, weil endlich bis in die letzte Hinterbank durchgedrungen ist, welcher Wortart denn nun „ich, du, er/sie/es, wir, ihr, sie“ zuzuordnen sind, Ottilie Normalverbraucherin runzelt zunächst aber einmal fragend die Stirn.
Worte formen unser Denken. Nicht vergessen: Das gilt auch umgekehrt. © 2 Nick Fewings/Unsplash
Während die Notwendigkeit eines kreativen Gebrauchs der Fürwörter für nichtbinäre Personen schnell erklärt ist und durchaus ihre Daseinsberechtigung hat in der allgegenwärtigen Diskussion um sprachliche Gender correctness, zieht diese Neuheit einen Rattenschwanz nach sich, der uns vor die Frage stellt: Wer soll sich das antun?
Krome: „Man kann sprachliche Änderungen nicht einfach aufoktroyieren.“
Das Problem: Es gibt eben nicht nur sechs mickrige Personalpronomen (plus eventuelle kreative Wortneuschöpfungen wie das aus dem Schwedischen übernommene „hen“, das wiederum vom finnischen „hän“ abgeleitet ist und alle meint, die sich keinem der beiden bisher gebräuchlichen Geschlechter zuordnen lassen), sondern eine Unzahl anderer Anstatt-Wörter. Diese alle korrekt zu gendern, führt zu einer Fülle an Wortneuschöpfungen, die erst einmal ihren Einlass in die Alltagssprache finden müssen. Theorie ist eine Sache, die Praxis eine andere. Denn: „Man kann sprachliche Änderungen nicht einfach aufoktroyieren“, wie Sabine Krome, Leiterin der Geschäftsstelle des Rats für deutsche Rechtschreibung im Juni 2021 auf ORF.at verlauten ließ. Sprache ist fließend, entwickelt sich mit ihren Sprecher*innen und etabliert sich erst mit ihrem Gebrauch durch die Mehrheit der Bevölkerung. Ein Umstand, der in weiter Ferne ist, wenn man sich die Statistiken zur Bereitschaft, eine geschlechtergerechte Sprache zu verwenden, ansieht (in Österreich sind es 20 Prozent, in Deutschland 24).
Vielleicht sollte man sich einer geschlechter–gerechten Sprache mit viel Feingefühl nähern.
Immerhin: Der Duden verzeichnet einen Zuwachs an genderneutralen Formulierungen, Tendenz steigend. Ist die „Männersprache“ (sic!) Deutsch gar nicht so schlimm wie ihr Ruf? (Spoiler: Doch. Ist sie.) Zeit-Kolumnist Harald Martenstein, dem man nun wirklich nicht vorwerfen kann, ein Feminist zu sein, tätigte in einem Radiointerview im September vergangenen Jahres eine Aussage, über die nachzudenken sich aber für alle lohnt: Sprache dient dazu, die Wirklichkeit alltagstauglich zu vereinfachen. Fraglich, ob Fantasiepronomen wie „ens“, „sier“, „zier“ oder „x“ dieser Sache dienen.

Und vielleicht kommt es darauf auch gar nicht an, und man sollte sich einer geschlechtergerechten Sprache Schritt für Schritt, Sternchen um Sternchen, und vor allem: mit viel Feingefühl nähern, bevor man die Inklusion aller möglichen und unmöglich scheinenden Geschlechteridentitäten anstrebt. Will heißen: das Gegenüber einfach mal fragen, wie es denn nun angesprochen werden möchte.