Colpisce anche la salute
Il Gender Gap
// Lorena Palanga //
Ne parliamo con la ricercatrice dell’Eurac Katharina Crepaz e con il medico Giacomo Strapazzon
© Adobe Stock
Si parla molto di gender gap riferito alle retribuzioni o al carico familiare, ma spesso viene trascurata una disuguaglianza di genere dai risvolti preoccupanti: ovvero quella che riguarda la ricerca medica, con la conseguenza della carenza di dati scientifici sulle donne in questo campo. È oramai accertato da diversi studi che nelle ricerche mediche i soggetti femminili sono sottorappresentati. Il perché ce lo spiegano Katharina Crepaz, senior researcher presso il Center for Autonomy Experience di Eurac Research, e Giacomo Strapazzon, medico e direttore dell’Istituto per la medicina d’emergenza in montagna di Eurac Research. “Le donne sono considerate soggetti di studio difficili e per questo non rientrano nella categoria “paziente normale” prevista dalla medicina, ovvero: giovane, maschio, bianco, senza disabilità, alto 1,80 metri e con un peso di 80 chili. I motivi per cui le donne sono considerate difficili da studiare sono il ciclo mestruale e la possibilità di gravidanza.” Anche il direttore Giacomo Strapazzon conferma queste complessità. “Per standardizzare la condizione fisiologica delle partecipanti occorrerebbe inibire il ciclo mestruale, ma così si perderebbero informazioni potenzialmente interessanti. Chiunque si discosti dalla definizione in medicina di ʻpaziente normaleʼ, come donne e minoranze, è quindi sottorappresentato”.
Alla base della scelta di non includere le donne nelle ricerche ci sarebbe insomma la loro complessità fisiologica, che porta con sé un motivo economico. “Condurre studi sulle donne è più lungo e costoso se si deve tener conto di fattori come le fluttuazioni del ciclo - spiega la ricercatrice che però ci tiene a precisare: “La politica sanitaria deve garantire un'assistenza adeguata a tutti i gruppi di popolazione, indipendentemente dai fattori economici, e quindi devono essere attuate linee guida adeguate anche per la ricerca medica.”
Il medico Strapazzon traccia quella che potrebbe essere una strada da seguire in termini anche di economia delle risorse. “A volte, per esempio quando non ci si aspetta di trovare differenze tra i due sessi - spiega - si può scegliere di condurre un’analisi preliminare sui soggetti più facili da studiare, ovvero quelli maschili, per poi, in caso si abbiano risultati interessanti, approfondire le ricerche includendo anche quelli femminili. In altri casi, invece, includere i soggetti femminili nello studio è imprescindibile, come quando si stanno testando cure destinate alle donne.” Infatti il rischio di una ricerca medica incentrata principalmente su un genere, quello maschile, è quello di ritenere che i risultati ottenuti da ricerche condotte su soli uomini vadano bene anche per i soggetti femminili. “Questo però, - precisa il medico - non è sempre vero, anche per via di quelle differenze ormonali a cui abbiamo già accennato. Nelle donne, ad esempio, il rischio cardiovascolare aumenta significativamente dopo la menopausa. Per conoscere il ruolo giocato dal genere biologico sull’insorgenza di determinate malattie e mettere a punto linee guida per prevenirle e cure per contrastarle bisogna quindi studiare soggetti di entrambi i sessi. Più in generale, possiamo dire che per valutare l’efficacia di una cura, questa andrebbe testata nella popolazione alla quale è destinata”, conclude Strapazzon. Un altro dato che deve far riflettere è che le donne rappresentano la metà della popolazione mondiale. Escluderle dagli studi significa non avere una base scientificamente valida per le terapie. “Sappiamo - afferma la ricercatrice Crepaz - che spesso i farmaci funzionano in modo diverso nelle donne e che il dosaggio deve essere adattato alla differente fisiologia dei due sessi. Condurre gli studi solo sul ‘paziente normale’, ovvero quello di sesso maschile, potrebbe quindi avere conseguenze fatali per la salute femminile. Spesso, inoltre, le donne presentano sintomi diversi da quelli degli uomini. Come nel caso dell'infarto: grazie alle campagne di sensibilizzazione, la maggior parte della popolazione sa che il dolore al lato sinistro del petto che si irradia al braccio è un segnale di allarme. Tuttavia, le donne avvertono altri sintomi, come un forte dolore tra le scapole. Questi segnali non vengono associati a un attacco cardiaco o vengono riconosciuti troppo tardi.”
Certo esiste anche una difficoltà di reclutamento di partecipanti donne alle ricerche, così come quando si tratta di partecipare alle misure di prevenzione sono gli uomini a mancare.
Tuttavia, questo fatto non deve essere usato come giustificazione. Fortunatamente la sensibilità verso la tematica è cresciuta negli ultimi anni. I National Institutes of Health negli Stati Uniti hanno emanato delle norme che impongono l’inclusione di soggetti femminili nei test clinici. Disposizioni simili sono fornite da associazioni come la Società tedesca di epidemiologia, che obbliga le sue ricercatrici e i suoi ricercatori a giustificare l’inclusione di soggetti di un solo sesso negli studi che potrebbero interessarli entrambi. “In Italia, nel 2023 - aggiunge Crepaz - l'Istituto Superiore di Sanità ha emanato delle linee guida per una ricerca medica equa dal punto di vista sia del genere biologico, ovvero del sesso dell’individuo, sia del genere sociale. Un passo importante nella giusta direzione. Nel 2022, l'Unione Europea ha introdotto delle norme che rendono obbligatoria una distribuzione rappresentativa del genere e dei gruppi di età nelle sperimentazioni cliniche”.
Qualcosa insomma si muove, ma lentamente. Solo attraverso una maggior attenzione sulle differenze e somiglianze anatomiche, fisiopatologiche e socio-culturali potremo arrivare a una “medicina per tutti e di tutti”.
Alla base della scelta di non includere le donne nelle ricerche ci sarebbe insomma la loro complessità fisiologica, che porta con sé un motivo economico. “Condurre studi sulle donne è più lungo e costoso se si deve tener conto di fattori come le fluttuazioni del ciclo - spiega la ricercatrice che però ci tiene a precisare: “La politica sanitaria deve garantire un'assistenza adeguata a tutti i gruppi di popolazione, indipendentemente dai fattori economici, e quindi devono essere attuate linee guida adeguate anche per la ricerca medica.”
Il medico Strapazzon traccia quella che potrebbe essere una strada da seguire in termini anche di economia delle risorse. “A volte, per esempio quando non ci si aspetta di trovare differenze tra i due sessi - spiega - si può scegliere di condurre un’analisi preliminare sui soggetti più facili da studiare, ovvero quelli maschili, per poi, in caso si abbiano risultati interessanti, approfondire le ricerche includendo anche quelli femminili. In altri casi, invece, includere i soggetti femminili nello studio è imprescindibile, come quando si stanno testando cure destinate alle donne.” Infatti il rischio di una ricerca medica incentrata principalmente su un genere, quello maschile, è quello di ritenere che i risultati ottenuti da ricerche condotte su soli uomini vadano bene anche per i soggetti femminili. “Questo però, - precisa il medico - non è sempre vero, anche per via di quelle differenze ormonali a cui abbiamo già accennato. Nelle donne, ad esempio, il rischio cardiovascolare aumenta significativamente dopo la menopausa. Per conoscere il ruolo giocato dal genere biologico sull’insorgenza di determinate malattie e mettere a punto linee guida per prevenirle e cure per contrastarle bisogna quindi studiare soggetti di entrambi i sessi. Più in generale, possiamo dire che per valutare l’efficacia di una cura, questa andrebbe testata nella popolazione alla quale è destinata”, conclude Strapazzon. Un altro dato che deve far riflettere è che le donne rappresentano la metà della popolazione mondiale. Escluderle dagli studi significa non avere una base scientificamente valida per le terapie. “Sappiamo - afferma la ricercatrice Crepaz - che spesso i farmaci funzionano in modo diverso nelle donne e che il dosaggio deve essere adattato alla differente fisiologia dei due sessi. Condurre gli studi solo sul ‘paziente normale’, ovvero quello di sesso maschile, potrebbe quindi avere conseguenze fatali per la salute femminile. Spesso, inoltre, le donne presentano sintomi diversi da quelli degli uomini. Come nel caso dell'infarto: grazie alle campagne di sensibilizzazione, la maggior parte della popolazione sa che il dolore al lato sinistro del petto che si irradia al braccio è un segnale di allarme. Tuttavia, le donne avvertono altri sintomi, come un forte dolore tra le scapole. Questi segnali non vengono associati a un attacco cardiaco o vengono riconosciuti troppo tardi.”
Certo esiste anche una difficoltà di reclutamento di partecipanti donne alle ricerche, così come quando si tratta di partecipare alle misure di prevenzione sono gli uomini a mancare.
Tuttavia, questo fatto non deve essere usato come giustificazione. Fortunatamente la sensibilità verso la tematica è cresciuta negli ultimi anni. I National Institutes of Health negli Stati Uniti hanno emanato delle norme che impongono l’inclusione di soggetti femminili nei test clinici. Disposizioni simili sono fornite da associazioni come la Società tedesca di epidemiologia, che obbliga le sue ricercatrici e i suoi ricercatori a giustificare l’inclusione di soggetti di un solo sesso negli studi che potrebbero interessarli entrambi. “In Italia, nel 2023 - aggiunge Crepaz - l'Istituto Superiore di Sanità ha emanato delle linee guida per una ricerca medica equa dal punto di vista sia del genere biologico, ovvero del sesso dell’individuo, sia del genere sociale. Un passo importante nella giusta direzione. Nel 2022, l'Unione Europea ha introdotto delle norme che rendono obbligatoria una distribuzione rappresentativa del genere e dei gruppi di età nelle sperimentazioni cliniche”.
Qualcosa insomma si muove, ma lentamente. Solo attraverso una maggior attenzione sulle differenze e somiglianze anatomiche, fisiopatologiche e socio-culturali potremo arrivare a una “medicina per tutti e di tutti”.
Giacomo Strapazzon © Eurac Research / Tiberio Sorvillo
Katharina Crepaz © Eurac Research / Annelie Bortolotti