Speak

La forza di farsi aiutare

// Lorena Palanga //
Petra Tanase ci racconta la malattia di sua figlia Valentina, come questo l’abbia fatta sprofondare in un tunnel buio e come sia stato decisivo per uscirne il coraggio di chiedere aiuto
La bambina con il suo papà mentre fa l'aeresol © privato
Quel giorno in cui ha scoperto che la sua vita e quella della sua famiglia sarebbe cambiata per sempre, Petra Tanase ce l’ha ben impressa nella mente. Era inizio luglio, sua figlia Valentina aveva tre settimane, tra pochi giorni sarebbe stato il compleanno di suo marito. Si trovava in un centro commerciale quando il telefono ha squillato. Sul display quel prefisso presagio di cattive notizie. Alla nascita ogni bambino viene sottoposto ad un test con un piccolo prelievo sul tallone. Ai genitori viene comunicato che qualora dovesse risultare qualcosa che non va verranno contattati telefonicamente nelle settimane successive. E quella chiamata alla famiglia di Petra purtroppo è arrivata: Valentina era risultata positiva alla fibrosi cistica e doveva essere sottoposta al più presto al test del sudore, l’esame per la diagnosi della malattia che consiste nella misurazione della concentrazione di sale nel sudore, di solito alta in chi soffre di questa malattia. Le settimane successive a quella chiamata sono state, come si può immaginare, un turbinio di emozioni: dalla speranza che si fosse trattato di un falso positivo all’ansia che così non fosse. Il responso fu quello che nessun genitore vorrebbe mai sentire: Valentina soffriva della malattia grave che colpisce bronchi e polmoni e che in Italia conta circa 6.000 casi (dati 2022).

In pratica chi soffre di questa malattia produce un muco viscido e denso che il corpo non è in grado di espellere e che, ristagnando, a lungo andare porta a infezioni e che, nei casi più gravi, può portare all’insufficienza respiratoria.

Petra è una donna forte. Cresciuta in Romania in una fattoria di campagna e in condizioni non facili, si è trasferita in Alto Adige, a Laghetti di Egna, dove ha costruito la sua vita e la sua famiglia. L’impatto con la malattia però si è rivelato per lei devastante. La montagna di medicine da somministrare quotidianamente con precisione alla piccola Valentina, la difficoltà di praticare su una neonata ogni giorno la fisioterapia respiratoria, ovvero 30-40 minuti di piccole percussioni prima sulla parte anteriore del petto destro e sinistro e poi su quella posteriore per smuovere il muco, il figlio più grande che comunque necessitava di attenzioni. Petra si è trovata all’improvviso ad affrontare qualcosa che le è sembrato insormontabile. E all’inizio lo ha dovuto fare da sola in quanto il marito era costretto all’estero per lavoro. “Quando si ammala un figlio, si ammala tutta la famiglia”, ci racconta. “Ne risente la coppia, ci si sente in colpa verso il figlio sano al quale si toglie inevitabilmente del tempo. Alcune volte mi sono trovata a pensare al peggio. Ho deciso di raccontarlo apertamente, perché spero che possa aiutare altre mamme che magari si trovano in questa situazione. Quello che mi ha salvato è aver avuto la forza di chiedere aiuto. Da soli non si possono affrontare situazioni così difficili.” Quando Petra ha iniziato a farsi aiutare, è riuscita ad fronteggiare quello che le era capitato e soprattutto ha sentito il bisogno di fare qualcosa per gli altri. Così ha iniziato a raccontare quello che le stava accadendo, ha condiviso la sua storia per cercare di incoraggiare chi stava vivendo situazioni simili, ha iniziato a dare il suo sostegno come volontaria alla Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi Cistica-ETS. Oggi Valentina ha quasi sette anni. A vederla sembra una bambina sana. La fibrosi cistica è un nemico che lavora dall’interno. Ed è anche per questo che un giorno Petra, stanca di sentirsi ripetere “ma la bambina sembra così sana”, ha deciso di condividere la foto che vedete in questo articolo: un enorme albero di Natale dove al posto dell’abete e delle palline colorate, ci sono le medicine che Valentina ha assunto in soli dieci mesi nel 2021. Ogni anno la quantità non cambia. Una montagna di medicinali: antibiotici, enzimi pancreatici, sali minerali, lassativi, gastroprotettori, vitamine liposolubili, broncodilatatori. Petra e suo marito ce la mettono tutta per donare a Valentina ogni giorno la vita che una bambina di sette anni merita e desidera. Certo ci sono le medicine, sette al giorno più da settembre a giugno l’assunzione di un antibiotico per frequentare la scuola. Ci sono gli enzimi da prendere in base ai grassi che ingerisce, perché il pancreas di Valentina non funziona come dovrebbe. Ci sono gli aerosol da fare due volte ogni 24 ore e un macchinario che induce i polmoni ad espellere il muco ha preso il posto della fisioterapia respiratoria “a mano” neonatale. Fortunatamente la ricerca sta facendo passi da gigante. La prima volta che Petra è tornata a sperare da quel maledetto caldo giorno di luglio, è stato quando un medico le disse: “Grazie ai nuovi farmaci sua figlia non conoscerà mai la vera faccia della fibrosi”. Oggi ad anni di distanza quel farmaco, allora sperimentato solo in USA, è arrivato in Italia e Valentina lo sta assumendo. Si tratta di un modulatore che corregge il malfunzionamento della proteina che causa la fibrosi e dall’anno scorso la sua somministrazione è stata approvata per i bambini dai sei anni in su. Un medicinale costoso. Si parla di decine di migliaia di euro, per l’acquisto del quale è fondamentale il sostegno da parte della sanità pubblica. Grazie ai passi da gigante fatti nella ricerca, un bambino che nasce oggi malato di fibrosi cistica ha un’aspettativa di vita che arriva ai 50 anni, rispetto ai 40 di qualche anno fa. A sostegno della ricerca Petra organizza ogni anno eventi e iniziative benefiche per la raccolta fondi. Non è semplice, ma questa mamma-coraggio ha trovato la forza per andare avanti e per lottare ogni giorno, per sua figlia Valentina, ma anche per le migliaia di bambini che sono colpiti da questa malattia solo all’apparenza invisibile. “La fibrosi cistica può essere impegnativa, implacabile, opprimente, spaventosa, dolorosa”, racconta Petra. “La fibrosi cistica non si prende un giorno libero, è spietata. Nonostante tutto, non si è mai soli ad affrontare questa grande sfida: mio marito, la famiglia, gli amici, la comunità, le varie associazioni, il Centro di Cura, la scuola, le istituzioni, sono sempre pronti a tenderci la mano. È tutta questa rete a fare la differenza quando hai a che fare con una malattia genetica degenerativa.”
Prevenzione
La Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi Cistica -ETS si batte da anni per far diventare un test di routine il test del portatore sano, che consiste in un semplice prelievo di sangue. Tutt'oggi è in atto una campagna di informazione e sensibilizzazione sul test del portatore sano di fibrosi cistica. In Italia 1 persona su 30 è portatrice sana ... e quasi sempre non sa di esserlo come è capitato a Petra e suo marito. Se entrambi i genitori sono portatori sani ad ogni gravidanza il rischio è che un bambino su quattro sia malato.

Speak

Conscious Bondage

// Hannah Lechner //
Über Fesselspiele, Körperlichkeit & die Kraft der Verbindung
Lea Rigo und Philipp Mitterhofer in den Dolomiten © privat
Lea Rigo kommt ursprünglich aus dem Pustertal. Vor neun Jahren ist sie nach Wien gezogen, hat dort unter anderem als Sexualpädagogin und in einem feministischen Sexshop gearbeitet und sich privat und beruflich intensiv mit den Themen Sexualität und Intimität auseinandergesetzt. Seit drei Jahren gibt sie selbst Bondage-Workshops in Wien, Innsbruck und Bruneck und wird im Frühling 2025 zurück nach Südtirol ziehen. ëres hat Lea zum Interview getroffen.

Das Workshop-Format, das du zusammen mit Philipp Mitterhofer, auch aus Südtirol, anbietest, heißt Conscious Bondage – Fesseln mit Verbindung. Was ist Bondage und warum ist Achtsamkeit (Deutsch für Consciousness) dabei so wichtig?
Bondage ist ein konsensuelles, also auf gegenseitigem Einverständnis beruhendes Spiel mit Seilen, in dem es um eine Dynamik von Dominanz und Hingabe geht. Wir sehen Bondage als Tool für zwischenmenschliche Nähe und Intimität, die sexuell sein kann, aber nicht muss und dementsprechend sehr vielfältig ausschauen kann – von sinnlich über verspielt oder fürsorglich bis erotisch oder eben sexuell. Achtsamkeit ist dabei so wichtig, weil es sehr intim ist und sich alle Beteiligten vulnerabel zeigen mit ihren Wünschen und Bedürfnissen, die oft leider noch immer schambehaftet und tabuisiert sind.

Wie kann man sich so einen „Fesselworkshop“ vorstellen?
Unsere Workshops gehen über zwei Tage, man kann sich allein, zu zweit oder auch als Gruppe anmelden. Uns ist ein guter Mix aus Seiltechnik und Übungen ohne Seil wichtig, in denen es z.B. darum geht, bei sich selbst anzukommen, den eigenen Körper zu spüren und davon ausgehend in Interaktion zu treten. Aber auch um physische und emotionale Sicherheit beim Fesseln – etwa welche Körperstellen man vermeiden sollte, wie man (trauma)sensibel miteinander umgeht, gut auf die eigenen Grenzen und die der anderen achtet oder wie man Consent herstellen (und jederzeit zurücknehmen!) kann. Auch wichtig zu wissen ist, dass man Übungen mit unterschiedlichen Leuten macht. Da sind viele zunächst skeptisch, und es braucht ein bisschen Zeit, um Vertrauen in der Gruppe aufzubauen. Am Ende melden aber viele rück, dass sie sich nicht gedacht hätten, mit vermeintlich fremden Menschen so schöne und verbindende Erfahrungen machen zu können.

Kannst du so eine Übung genauer beschreiben?
Klar! Am ersten Tag gibt es z.B. eine Übung zu zweit mit Seil, aber ohne Knoten, damit man erst mal nicht zu viel im Kopf ist und über die Technik nachdenkt, sondern in Verbindung treten kann. Es geht darum, herauszufinden, was man mit dem Seil auch ohne Knoten alles machen kann – z.B. über die Haut streifen, mit Enge und Lockerheit spielen oder mit auditiven Reizen, etwa indem man das Seil auf den Boden wirft oder nah am Ohr der anderen Person zusammengeknüllt und knistern lässt. Das Ganze passiert angeleitet, und wir erinnern die fesselnde Person regelmäßig daran, einzuchecken und Consent einzuholen.

Wie schaut dieses Einchecken aus?
Wir verwenden am liebsten die Ampel-Methode. Das heißt, dass die gefesselte Person immer wieder darum gebeten wird, durch das Nennen einer Farbe rückzumelden, wie es ihr gerade geht: Grün bedeutet, dass alles ok ist, gelb, dass sich etwas verändern muss, z.B. die Sitzposition oder der Druck an einer Körperstelle, und rot bedeutet, dass die Session sofort aufhört, um dann zu schauen, was die Person gerade braucht. Aftercare, also sich nach dem Fesseln umeinander zu kümmern, ist immer wichtig, egal ob vorzeitig abgebrochen wird oder nicht. Wie das ausschaut, ist sehr individuell – es kann Kuscheln sein, ein bisschen Zeit für sich oder sich mit dem*der Partner*in oder einer außenstehenden Person über das Erlebte austauschen.

Ihr habt euren Workshop schon vier Mal in Südtirol angeboten. Seid ihr da auf Widerstände gestoßen und warum ist es euch gerade hier so wichtig?
Uns geht es darum, Räume zu schaffen, in denen Menschen sich bewusst mit Körperlichkeit, Intimität und Lust auseinandersetzen können. Gerade im konservativ geprägten Südtirol fehlen solche Räume oft, und es gibt sehr viele Vorurteile und Tabus. Viele sind zunächst zögerlich, teilzunehmen, auch weil Anonymität in ländlichen Kontexten viel schwieriger zu wahren ist. Deswegen stellen wir zu Beginn klar, dass es sich um einen vertraulichen Raum handelt und z.B. nicht ohne Einverständnis nach außen getragen wird, wer alles dabei war. Insgesamt ist das Feedback aber durchaus positiv, und es ist sehr schön zu beobachten, wie durch unsere Workshops Kontakte entstehen und sich auch in Südtirol langsam eine Community von Leuten bildet, innerhalb derer es einen offenen Umgang mit Körperlichkeit und Sexualität gibt. Ab Herbst sind auch neue Termine in Südtirol angesetzt, die findet man auf meiner Webseite (www.lea-rigo.com) oder auf Instagram (unfurling_workshops).

Auch in feministischen Kreisen trifft man immer wieder auf die Vorstellung, dass Fesseln und ein Spiel mit (sexuellen) Machtdynamiken nicht mit Feminismus zusammengehen. Wie siehst du das?
Absolut nicht so! Gerade weil es uns ja ums Aufbrechen einer Vorstellung geht, die Bondage in dunklen Kellern verortet und oft mit gender-stereotypen Rollenverteilungen von „aktiven Männern“ und „passiven Frauen“, penetrativem Sex und Unterwerfung verknüpft ist. Deswegen verwenden wir auch bewusst andere Begriffe. Jede Person kann unabhängig von ihrer Genderidentität sowohl in der dominanten als auch in der hingebenden Rolle sein, und dabei ist die hingebende Rolle nicht weniger aktiv. Es geht um eine bewusste Machtübergabe, um ein sich fallen und führen lassen, was – in einem sicheren Rahmen – sehr schön und erleichternd sein kann. Und auf der anderen Seite geht es um sehr viel Verantwortung und Kreativität, wie mit dieser Macht umgegangen wird. In einem solchen Verständnis von Bondage stecken sehr viele (queer)feministischen Werte – sagen zu können „Fuck ja, das will ich!“ kann in so einem Rahmen, egal in welcher Rolle, sehr empowernd sein! Wir wollen Räume schaffen, die es ermöglichen, Verletzlichkeit zu zeigen, die eigenen Grenzen kennenzulernen und schambefreit(er) über Wünsche und Bedürfnisse zu sprechen. Wir wollen Platz für Fehlerfreundlichkeit und Verspieltheit lassen und – über die Workshops hinaus – einen sensiblen Umgang mit Machtverhältnissen fördern. Solche Räume können eine unglaublich kraftvolle Erfahrung für die eigene Selbsterforschung und die Verbindung mit anderen sein.


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