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s'Muschi-Ding voll durchziachn #3

// Hannah Lechner //
© Elisabeth Öggl
»Veggay«
Osterbesuch 2025, ich mit meinem Cousin und meinem Vater am Küchentisch „ban Marenden.“ Fürsorglich, ja geradezu andächtig schneidet letzterer Speck auf – und reagiert (wie die gefühlt tausend Male davor auch) mit sich nicht abnutzen wollender Überraschung, als wir beide dankend ablehnen: „Wia, eis essts koa Fleisch mea?“ „Na Tata, schun seit x Johr.“ Wohin nur mit dem ganzen Speck, wenn die Kinder vegetarisch werden und „die Schwiegersöhne ah nimmer kemman?“ Als ich wieder fahre, gibt mein Vater mir ein Stück Speck für meinen Ex-Freund mit.

Outings überfordern das Umfeld mitunter. Ich weiß nicht, was in Südtirol mehr irritiert hat: Dass ich vegetarisch bin oder queer – „dassi koan Speck mea iss oder gearn Pussy“. Als wir zwölf oder 13 waren, machte eine Freundin ihre erste lesbische Erfahrung. Und dabei war das Rummachen mit anderen Mädchen in der Wirklichkeit, in der wir uns bewegten, so sehr kein Ding, dass keiner der Begriffe, die wir für vergleichbare Interaktionen mit Jungs hatten – „ummerleckn“, „lelln“, „schnulln“, you name it – als Bezeichnung in Frage kam. Es brauchte einen neuen, eigenen Namen dafür, den wir uns hinter vorgehaltener Hand zuflüsterten. Uns gleichzeitig genierend und ein unheimlich aufregendes Kribbeln verspürend, das ein Vorgeschmack auf eine Welt sein sollte, die sich mir erst 15 Jahre später eröffnete.

Ich nehme meinem Vater das Osternest für meinen Ex- (und nach wie vor guten) Freund nicht übel. Im Gegenteil war ich in dem Moment tatsächlich belustigt von der Situation und sogar ein bisschen gerührt vom Geschenk – war mein Vater doch auch eine jener Personen, die am entspanntesten und wohlwollendsten auf mein Outing reagiert haben. Und dennoch kondensiert sich in seiner beiläufig geäußerten Bemerkung ein Weltbild, innerhalb dessen Fleischkonsum und Heterosexualität zu jenem Orientierungspunkt verschmelzen, um den die anderen zu kreisen haben. Menschen, die freiwillig auf Fleisch verzichten, sind darin genauso wenig vorgesehen wie Queers; die Kombi ist, zu weit vom Stabilität wahrenden Altbekannten entfernt, allenfalls zu viel. Und triggert – „It amol mea an Speck terfat ma essen!?“ – an so manchen Marendtischen Denormalisierungsangst. Dabei ist es den Onkeln und Tanten, wie sie vehement betonen, egal, was andere Leute tun – jeder wie er meint – „ober miaßn sie die gonz Zeit driber reidn!?“ Sie wollen es doch schlicht und einfach nicht wissen!

Ja, Onkel Klaus, sie müssen. Wer an den Rand des Sag- und Denkbaren gedrängt wurde, wer ein neues Wort erfinden musste, weil keines der vorhandenen auf die eigenen Erfahrungen zu passen schien, wer viele Jahre später endlich die Sprache findet, um sich selbst zu beschreiben, MUSS reden.

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Il diritto di vivere il nostro tempo secondo i nostri tempi

// Cristina Pelagatti | Centaurus //
Il queer time ovvero la libertà di godere di un tempo più fluido rispetto a quello che le norme sociali convenzionali impongono
© Adobe Stock
La maggiore età, il primo amore, la patente, lo studio, l’ingresso nel mondo del lavoro, il matrimonio, l’acquisto di una casa, la genitorialità, la pensione, la “nonnitudine”, sono questi grossomodo i presupposti eteronormativi sul corso della vita. Questa etero-temporalità differisce in modo sostanziale dagli stadi della vita delle persone LGBTQA+. Il concetto di queer time palesa come le esperienze di vita delle persone queer possano essere non sincronizzate con quelle “cisteteronormative”. Anche non volendo ricordare tempi in cui alle persone queer non era possibile accedere al mondo del lavoro per non parlare di unioni civili o genitorialità, è chiaro che anche oggi, le esistenze queer si distinguono per la mancanza di “crononormatività”, a partire dalla più giovane età, nel caso di persone che non si riconoscano con il sesso scritto nei propri documenti o con un orientamento eterosessuale.

Il coming out tardivo: la testimonianza
Laura (nome di fantasia), 49 anni, nonostante una famiglia progressista, università a Bologna, indipedenza economica e amicizie consolidate, solo da 6 anni ha deciso di fare coming out.

“A me stessa non avevo mai am­messo di essere lesbica, ma inconsciamente lo sapevo. Ho avuto la vita più conforme possibile: scuola, famiglia, amici, interessi, buon lavoro. A livello di rapporti personali mi sembrava giusto uscire con i ragazzi, ma l’aspetto sessuale della cosa non mi interessava. Ho avuto rapporti con ragazzi ma non mi hanno entusiasmata, tanto che per un certo periodo ho pensato di essere asessuale. Non ho avuto mai esperienze lesbiche prima del coming out, nonostante ne abbia avuto l’occasione, forse proprio perché inconsciamente sapevo che avrebbe significato molto di più di una singola esperienza fisica.

La svolta c’è stata nel 2019 quando ho conosciuto un uomo con cui mi sono trovata bene in modo straordinario: a lui mi sono trovata a dire, nel momento peggiore possibile, ‘mi piacciono le donne’. Non volevo trascinare le cose e fargli del male.”

Il diritto di seguire la propria logica temporale
“Da lì, oltre all’inizio di un percorso psicoterapico che avevo sempre rifiutato, è cominciata la mia adolescenza. Ho iniziato con le app di incontri e ho conosciuto donne e scoperto che in realtà l’attività sessuale mi interessa. Ho avuto anche un ‘primo amore’, travolgente come tutti i primi amori, anche a 46 anni, durato due anni. Ho affiancato al mio giro abituale di amicizie nuove persone e ho parlato chiaramente con la mia famiglia che mi ha rinfacciato il fatto che li avrei privati della gioia di avere dei nipoti, come se figliare fosse mai stato nei miei piani. Le amiche più care mi hanno chiesto se le ritenessi incapaci di capire e si sono dette dispiaciute per il fatto che avessi perso gli anni migliori della vita. Ma il mio tempo migliore è questo: mi sento bene e felice. Le vite queer seguono una propria logica temporale e credo sarebbe un bene che ognuno, queer o no, la seguisse.”