Centaurus

Sex Work

// Cristina Pelagatti //
Una scelta non rispettata
Tra pregiudizi, stigma, moralismo, vittimizzazione e mancanza di tutele: le sex workers chiedono il ricono­scimento del loro lavoro
C’è un argomento sul quale l’abituale metodo dialettico italiano della tifoseria pro/contro e della dicotomia tra giusto/sbagliato, va in cortocircuito: il sex working. Il fatto che riguardi una molteplicità di esperienze (dal sex work su strada o in casa a only fans passando per chi vende indumenti intimi usati e chi fa video porno amatoriali) stride con la tendenza a pensare al lavoro sessuale come appannaggio o di vittime di tratta schiavizzate o di escort di alto livello.“In mezzo ai due estremi – spiega la sociologa Giulia Selmi nel libro ‘Sex Work. Il farsi lavoro della sessualità’ – si trova la maggioranza delle sex workers”, persone, per lo più donne cis e trans, che si sono trovate, per scelta, costrizione o circostanza a vendere prestazioni sessuali in cambio di soldi o altri beni. Posto che qualsiasi attività sessuale esercitata senza consenso rientra nel campo della violenza sessuale e non del sex working, ci si deve togliere la lente del moralismo dagli occhiali coi quali si osserva la realtà e si deve cercare di capire che il sex working è un mezzo per alcune donne di autodeterminarsi, una scelta per guadagnare denaro, anche temporaneamente, ricavando profitto da un’attività che in Italia è senza regolamentazione vista la vigente (dal 1958) Legge Merlin, che formalmente non penalizza le sexworkers ma di fatto, punendo lo sfruttamento della prostituzione di cui taccia chiunque abbia a che fare con loro, impedisce di lavorare in modo sicuro. Un riconoscimento del sex work è stato richiesto a gran voce dal primo congresso delle sex workers italiane che si è tenuto a Bologna a giugno e dove è stata salutata con favore la nuova legge belga, prima in Europa a decriminalizzare il sex work e realizzata dopo aver interpellato le sex workers belghe stesse che ora possono pagare le tasse ed avere le tutele dello status di lavoratrici autonome. Il contrario del modello scandinavo che criminalizzando il cliente, fa in modo che le sex workers lavorino sempre più nascoste, non siano protette e non si riescano a localizzare coloro che sono vittime di tratta. In Alto Adige compie 20 anni Alba, il progetto antitratta portato avanti da Volontarius con la Strada – Der Weg e il consorzio sociale Consis che come spiega la referente Gina Quiroz “si occupa di lavorare contro la tratta di esseri umani e lo sfruttamento che non riguarda solo lo sfruttamento sessuale ma anche la schiavitù lavorativa, la servitù domestica, le economie illegali. Con l’unità di contatto, facciamo uscite per monitorare e fare emergere potenziali vittime di sfruttamento sessuale o situazioni di pericolo. In Alto Adige su strada ci sono circa 25 sex workers, le conosciamo da tempo, hanno tutte documenti e non ci sono minorenni. La situazione del sex working indoor è diversa, è più ampia e più difficile da monitorare, tra comunità chiuse, forte pendolarismo e paura di raccontarsi. Non bisogna dimenticare infatti il grande stigma che ammanta il lavoro sessuale.”
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Numero verde contro la tratta
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Rubrica

Bilancio di fine estate

// Tilia //
Le aule scolastiche hanno appena riaperto le porte e la domanda che mi faccio ormai da anni alla fine di ogni estate è sempre la stessa: quando le scuole chiudono, per circa tre mesi, ben 12 settimane, se entrambi i genitori lavorano, come si fa... a sopravvivere? Come ci si destreggia tra l’assistenza ai figli, il lavoro e la gestione della casa, garantendo al tempo stesso uno standard educativo e formativo ai bambini, che così come non devono essere parcheggiati a scuola non devono esserlo nemmeno sul divano di casa? Si tratta di un enigma per me ancora irrisolto.

Noi non siamo tra i più fortunati che possono contare su una casa estiva al mare o in montagna, tra le cure di nonni o tate. Quindi i miei figli si trovano ogni estate al traino di mamma e papà. Soprattutto di mamma (dicono le statistiche). I centri estivi non sempre sono praticabili, comunque non per tutto il periodo estivo, costano e spesso l’offerta del territorio non copre tutto il periodo necessario o la richiesta. Il 1° febbraio, prima data utile per l’iscrizione al centro estivo del mio paese, ho puntato la sveglia alle 23:50 del giorno prima per riuscire ad accaparrarmi un posto per una settimana in agosto. Ce l’ho fatta per un pelo, pochissimi i posti rispetto alla richiesta... Considerando poi che la vacanza della famiglia, per quanto breve, ha un suo costo ulteriore, diventa ancora più difficile far quadrare i bilanci. Lo smart-working, se concesso, senz’altro semplifica la vita in termini di spostamenti, ma non toglie lo stress.
Il periodo estivo e le meritate vacanze, “avrebbero” il compito di restituire le energie spese durante l’anno in recupero intellettuale, fisico, emotivo. Ma per paradosso, spesso diventano motivo di stress e fatica: una settimana di centro estivo, una dai nonni, una con mamma e papà in vacanza, una al lavoro di mamma/papà, e così via, in un continuo e faticoso cambio di routine. Altro che recupero dover organizzare gli incastri e gli spostamenti facendo i salti mortali! Un costo più abbordabile dei centri estivi metterebbe una pezza al problema. Ma non lo risolverebbe. Quindi? Di certo lasciare che le famiglie gestiscano da sole il carico economico e psicologico delle chiusure scolastiche, non può essere l’unica.
In attesa che l’enigma si risolva... almeno durante la vacanza in famiglia, cerco di ricordarmi una cosa: che “vacanza” deriva da “vacans”, participio presente di vacare “essere vuoto, libero”. La vacanza dovrebbe servire a svuotare il più possibile la quotidianità da impegni e fatiche. E quindi... una settimana di pasti a base di gelato, pizza e piadine, anziché un calcolo bilanciato di proteine e nutrienti, non bloccherà la crescita dei bambini. Andare a letto per una volta con la salsedine senza fare la doccia non rovinerà la loro epidermide in modo irrimediabile. Andare in spiaggia senza pensare alle creme solari e alle borracce? Ce la posso fare: non è che se non lo faccio io non lo fa nessuno, è che se continuo a farlo io non lo impara nessuno. Tutte, e tutti, ci meritiamo questa leggerezza, anche per più di una settimana l’anno, in verità.