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Die Kraft eines Films

// Jenny Cazzola | Centaurus //
Während es in den USA die Protestnächte auf der Christopher Street waren, war es im deutsch­sprachigen Raum ein Film, der die Schwulen- und Lesbenbewegung Fahrt aufnehmen ließ.
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In der März-Ausgabe der ëres hat sich Cristina Pelagatti mit den Stonewall-Aufständen und ihren Nachwirkungen befasst. Doch ich fragte mich dabei, wie schwappten queere Bewegungen eigentlich von den USA nach Europa und spezifisch in den deutschsprachigen Raum über? Die Antwort lautet: durch einen Film.

„Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt“
So lautet der Titel eines Filmdramas von Rosa von Praunheim aus dem Jahr 1971. Es zeigt das Leben einiger Männer in der schwulen Subkultur Berlins zur damaligen Zeit. Ihre Beziehungen zueinander, aber auch die Probleme mit denen sie kämpfen. Grundtenor ist dabei, dass Homosexuelle sich outen, sich nicht mehr verstecken sollten, um frei und gleichberechtigt leben zu können. An der Homosexualität ist also nichts pervers, an der Ausgrenzung und Benachteiligung von Menschen aufgrund ihrer sexuellen Orientierung schon.

Das sorgte für Aufsehen. Für Gerede. Für Aktivismus, von Leuten und Gruppierungen, die sich von dieser These angesprochen fühlten. Ähnlich wie in den USA begannen Menschen sich zusammenzufinden und Druck auf die Politik auszuüben. Es war der Beginn der Schwulen- und Lesbenbewegung im deutschsprachigen Raum.

Road to Pride Movies
Eigentlich ist es aber nicht verwunderlich, dass ein Film am Anfang dieser Bewegung stand. Denn Filme haben große Kraft. Sie können die Fantasie anregen, die Vergangenheit, Gegenwart oder eine mögliche Zukunft zeigen. Sie berühren emotional und man kann sie alleine oder auch in Gesellschaft konsumieren. Einen Film zu schauen, gehört für viele Menschen zum Alltag. Das war auch ein bisschen der Grund, wieso Alto Adige Pride Südtirol gemeinsam mit dem Filmclub die Veranstaltungsreihe „Road to Pride Movies“ ins Leben gerufen hat. „Wir wollten, dass die Pride nicht nur der 28. Juni ist, sondern das ganze Jahr über“, erzählt Christian Contarino, der die Filmvorführungen koordiniert. „Außerdem sprechen Filme viele unterschiedliche Menschen an und decken viele Themen ab. Bei der Erstellung der Filmreihe haben wir gezielt nach Filmen gesucht, die eine Bandbreite von queeren Themen und Erfahrungen aufgreifen: von Regenbogenfamilien bis zur Dragkultur, von Geschlechtsidentität bis zu Liebe und Beziehungen. Das Medium Film bietet dabei die Möglichkeit, auch in sehr kurzer Zeit in dieses Universum an Themen einzutauchen und sehr schnell etwas über das jeweilige Thema zu lernen.“

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Il nome è destino?

// Tilia //
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Che lo si voglia o no, i nomi che ci vengono assegnati alla nascita sono biglietti da visita che, spesso e volentieri, possono determinare il nostro destino sociale, ma anche il nostro livello di avvenenza. A dirlo è la scienza? Decisamente no, ma l’ennesimo commento da sottobosco digitale, quello che con nonchalance sentenzia: Hanno assunto una che si chiama Giuseppa. Probabilità che non sia un cesso? 3%.

Eccoci qui, nell’era dei diritti, della body positivity e dell’empowerment femminile, a fare i conti con la più becera delle lotterie genetico-anagrafiche: il nome. Sì, perché se ti chiami Ludovica o Beatrice, ti aspetta un futuro di capelli lucenti e lineamenti aristocratici. L’idea che un nome possa predire la bellezza di una persona è assurda, ma piuttosto radicata. Alcuni nomi come Valentina o Ginevra evocano immediatamente un’immagine ideale, anche solo per il suono e l’associazione che ne deriva. Questo fenomeno è aggravato dai media e dai social, che associano determinati nomi a determinate estetiche. Ma c’è di più. Ricerche hanno dimostrato che il nome può addirittura influire sulle opportunità lavorative. Un curriculum con un nome considerato “elegante” riceve più risposte rispetto a uno con un nome percepito come “popolare” o “etnicamente marcato”. Un nome come Filomena, essendo meno comune tra le nuove generazioni e suonando “antiquato”, può suscitare pregiudizi sull’età e sull’aspetto fisico della candidata.

Perché se un uomo con un nome desueto può più facilmente rifugiarsi nella narrazione del fascino da intellettuale d’altri tempi (avete mai sentito dire “Hanno assunto uno che si chiama Italo. Probabilità che non sia un cesso? 3%? No, vero?), una donna con un nome “sfortunato” è spacciata. Se ti chiami Giuseppe potresti essere immaginato come un tipo serio e autorevole, magari un po’ "tradizionale", nel peggiore dei casi “vecchio stile”, ma... se ti chiami Giuseppa, a quanto pare hai il 97% di probabilità di essere brutta.

Se la tua carta d’identità recita Assunta, Pasqualina o Domenica è meglio che tu abbia un’ironia tagliente e una sana dose di menefreghismo. Perché portare un nome così potrebbe significare affrontare con fierezza ogni sopracciglio alzato, ogni battuta infelice e dimostrare che, dietro un suono antico, può esserci una donna brillante e perfino – udite udite – affascinante.

Perché alla fine, il nome non ci definisce. E se proprio dobbiamo farci un nome, meglio farlo con ciò che siamo, non con ciò che la gente si aspetta. Firmato: Tilia (... ma sarà il mio nome vero o uno pseudonimo?)