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La marea femminista in Argentina: lotte a confronto

// Verena De Monte //
Femminista originaria della Patagonia argentina, Cecilia Muñoz è residente a Merano e lavora come formatrice, educatrice e operatrice per l’interculturalità e l’inclusione. È anche insegnante di spagnolo, burattinaia e narratrice appassionata. In questo dialogo ci racconta i movimenti di donne della sua terra natia e dà uno suo sguardo sul femminismo europeo.
Da qualche anno c’è molto fermento e attivismo nei movimenti per i diritti delle donne in Argentina. Cosa sta succedendo?
La protesta delle donne in Argentina è un fiume in piena, siamo in presenza di un movimento storico mai visto prima. Dopo una serie di femminicidi di ragazze molto giovani, qualche anno fa un gruppo di giornaliste argentine ha iniziato a protestare contro la rappresentazione di questi omicidi da parte dei media e cioè come delitti passionali e non come “femminicidi”, espressioni di un fenomeno culturale e di una società patriarcale in cui la violenza contro le donne è legittima e all’ordine del giorno. Le giornaliste sono state subito seguite da masse di donne che hanno pensato “o insorgiamo o ci ammazzano tutte, adesso basta, non una di meno – ni una menos! –” e si sono riversate sulle strade e piazze in tutto il paese in un moto di rabbia spontaneo.
Chi sono le protagoniste del movimento?
Accanto a ragazze molto giovani e studentesse, marciano contadine e donne provenienti dai quartieri poveri delle città. Soprattutto le donne con scarse risorse hanno dimostrato ancora una volta di avere una capacità quasi naturale di fare rete e di unirsi, organizzandosi per protestare in forme diverse e creative e utilizzando anche l’arte di strada, come ad esempio la Murga, una forma espressiva tradizionale in cui le persone si riuniscono spontaneamente di domenica in una piazza della città per suonare, cantare e ballare. I testi delle canzoni – da sempre di protesta – ora esprimono le rivendicazioni delle donne e delle femministe.
Le femministe argentine hanno ottenuto dei risultati con le loro proteste?
Sì, decisamente. Dopo la dittatura terminata nel 1983, molti ambiti della società sono rimasti autoritari e oppressivi. È in atto da anni lo sforzo per promuovere un cambiamento culturale in direzione di una società più aperta ed eguale. Il femminismo si inserisce in questo movimento più ampio, volto appunto a eliminare gli strascichi fascisti e autoritari nella società argentina, ad esempio nel sistema educativo. Grazie all’impegno delle femministe, nelle scuole sarà obbligatoria l’educazione sessuale. Un’altra grande vittoria è stata – dopo molti sforzi e tentativi falliti – la legalizzazione dell’aborto.
Quali sono le differenze maggiori tra i movimenti in Argentina e quelli europei e locali?
Mi sembra che le protagoniste del femminismo europeo siano soprattutto le donne intellettuali, che fanno delle ottime analisi e danno un prezioso contributo alla causa. Non si è creato però un movimento di massa come in Argentina, dove insorgono le donne “popolari”. Le donne sudamericane vivono sulla loro pelle la disuguaglianza economica e le ingiustizie, sono abituate a doversi organizzare e vivono spesso in condizioni tali che è facile far esplodere la rabbia che già di base le accompagna negli sforzi quotidiani. Inoltre, l’età media delle attiviste – come del resto quella della popolazione argentina – è molto più bassa di quella presente nelle manifestazioni che vediamo in Europa e in Alto Adige.
Cosa possiamo imparare dalle donne argentine?
I movimenti femministi e di protesta dipendono moltissimo dal contesto e dalla storia del territorio sul quale agiscono. Non si può semplicemente trasferire una modalità di ribellione da un paese a un altro. Quello che come latinoamericana, abituata a reagire alle ingiustizie, posso consigliare è di intervenire ogni qualvolta ci troviamo in presenza di un’ingiustizia subita da una donna, anche quando non ci riguarda direttamente. Bisogna, inoltre, favorire la solidarietà tra donne in ogni dove e lottare insieme anche quando tra femministe abbiamo posizioni diverse – il che è inevitabile e succede anche in Argentina – insistendo su ciò che ci unisce invece che sulle differenze. Abbiamo un nemico comune – il patriarcato – e ogni contributo a cambiare questa società diseguale è importante.
Cosa vuol dire essere donna e straniera?
Per esperienza diretta e per il lavoro che svolgo, conosco bene le molteplici discriminazioni subite dalle donne con background migratorio, le quali subiscono una doppia pressione. Sentono continuamente di dover dimostrare qualcosa, non solo in quanto donne, ma soprattutto in quanto straniere: devono provare incessantemente di essere delle buone cittadine, bene integrate e “civilizzate”; soffrono più spesso di solitudine e isolamento; il divario salariale per loro è ancora più marcato, poiché guadagnano ancora meno delle altre donne; spesso hanno difficoltà maggiori a manifestare, perché temono di essere giudicate dalla loro famiglia e dalla loro comunità, così essenziali per chi si trova a vivere in un paese straniero. Tutto questo è oltremodo stancante.
Con le Sue molteplici attività, Lei è impegnata costantemente alla creazione di una società più giusta ed eguale. Quali progetti ha per il futuro?
Per cambiare la società occorre non cedere a un’idea pessimista e catastrofica del futuro. Voglio lavorare a un immaginario di un futuro migliore per poi esporlo attraverso un’opera artistica. Abbiamo bisogno di immaginare un futuro diverso e io sto lavorando per nominare e visualizzare il più concretamente possibile la società che in molte desideriamo. Interloquendo con donne e persone di tutte le età, sto cercando un neologismo per designare la società dopo il patriarcato e delle immagini che visualizzino un’utopia possibile. Le cose si cambiano non solo criticando il presente, ma iniziando a immaginare concretamente una società alternativa.
Cecilia Muñoz

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Sprache schafft Wirklichkeit – Vielfalt statt Gleichschaltung

// Bettina Conci //
Der Verein der Neuen deutschen Medienmacher*innen in Deutschland setzt sich für mehr Diversität in den Medien ein, was die personelle Besetzung, die Themen und die Sprache betrifft. Höchste Zeit, dass auch in Südtirol etwas in Sachen Qualitätsjournalismus unternommen wird.
© Mikelya Fournier / Unsplash
Sheila Mysorekar ist eine energische Frau, die sich mit großer Leidenschaft, klaren Worten und unverkennbar rheinländischem Humor für vielfältige(re) Medien einsetzt. Die indodeutsche Journalistin arbeitet als Beraterin für konfliktsensiblen Journalismus für die Deutsche Welle Akademie. In ihrer Eigenschaft als Vorstandsmitglied der Neuen deutschen Medienmacher*innen informierte sie dieses Jahr in einem Workshop über „Medien und schwarze Perspektiven“ – weil die Veranstaltung in Innsbruck stattfand, nicht nur wie gewohnt am Beispiel Deutschlands, sondern diesmal auch bezugnehmend auf Österreich. Für Südtiroler Ohren klangen die Mechanismen, was Berichterstattung in den Medien angeht, allerdings bisweilen schmerzlich vertraut.
Die Fragen, die wir uns stellen sollen
Als Beispiele für einseitige, suggestive Berichterstattung führte sie unter anderem an: „Menschen mit Migrationshintergrund“ (jede*r vierte Österreicher*in) vs. „die Bevölkerung“ (wer ist dieses „wir“, wenn Medien davon reden? Gehören nicht alle dazu? Wenn nicht, wer wird ausgeschlossen?), „südländisches Aussehen“, „Menschen ausländischer Herkunft“ usw. Reduziert sich die sprachliche Reichweite zu stark auf das WIR gegen DIE, können Medien durchaus de-eskalierend wirken, so die Journalistin. Es ist die Entscheidung der Medienmacher*innen, der Journalist*innen, ob sie antirassistisch agieren wollen. Dazu ist es wichtig, Beteiligte und Betroffene zu Wort kommen zu lassen, gut zu recherchieren – und zu vermeiden, Rechtsradikalen und Rassisten eine Stimme zu geben.
Medienmacher*innen, so der Verband Freier Rundfunk Österreich in einer Informationsbroschüre, die als Denkanstoß gesehen werden kann, sollten sich folgende Fragen stellen: Gebe ich Menschen Raum, die aus anderen Lebensrealitäten als meiner eigenen kommen? Erwähne ich Kinder und Aussehen bei Frauen, lasse diese Information bei Männern aber weg? Bin ich versucht, nicht-weiße Menschen zu fragen, woher sie kommen? Verwende ich den männlichen Plural und irritiert es mich, wenn nicht klar erkennbar ist, ob ein Mann oder eine Frau spricht? Kommen Menschen mit Armutserfahrung oder Behinderung als Expert*innen zu Wort?
Verbündete, die mitbezeugen
Nun ist das Problem in Südtirol (aber nicht nur dort), dass wir gar nicht so viele Menschen finden, die direkt von Rassismus, Diskriminierung und Ausgrenzung betroffen sind, um als Experten zu diesen Themen befragt zu werden. Hier ist guter Rat teuer, und Menschen wie die Politologin und Journalistin Hadija Haruna-Oelker haben auch eine Lösung parat: Es müssen gar nicht immer nur die sprechen, die direkt betroffen sind. Das Konzept des/der Verbündeten (engl. „Ally“) hält auch im deutschsprachigen Raum zunehmend Einzug. Menschen, die ein Bewusstsein für etwas entwickeln, von dem sie nicht direkt betroffen sind, sich mit dem Thema Diversität auseinandersetzen und es ernst nehmen, können dieses neu erworbene Wissen und diese Erfahrung weitergeben und somit ihren Teil leisten, um die Welt etwas gerechter zu machen.
Bei der diesjährigen Summer School Ende August auf Schloss Velthurns sprach auch Irene Kacandes, die an der US-amerikanischen Dartmouth-Universität German Studies und Komparatistik lehrt, vom Konzept des sogenannten „Co-Witnessing“ (Mit-Bezeugens), das es Nicht-Betroffenen erlaubt, gegen Ungleichheit im Sprachgebrauch und darüber hinaus tätig zu werden, ohne sich dem Vorwurf ausgesetzt zu sehen, einen Kampf ausfechten zu wollen, der nicht der ihre ist.
Ein Appell an die Redaktionen
Um Diversität ernst zu nehmen, bedarf es einer Strategie. Das beginnt bei der Personalauswahl. Im Bemühen, Menschen für eine journalistische Tätigkeit zu rekrutieren, heißt das Zauberwort Mehrdimensionalität. Das beginnt bei der gendersensiblen Anrede (m/w, *, Binnen-I) und gilt auf jeder Ebene der Berufswelt. Praktikant*innen müssen bezahlt werden, dann kriegt man auch solche aus Arbeiterfamilien und ihre wertvolle Perspektive. So wird ein neues „Wir“-Gefühl geschaffen, eine neue Normalität, die von den Redaktionen ausgeht und in jeden Winkel gesellschaftlichen Lebens ausstrahlt.
Auch Geschlechtergerechtigkeit ist noch längst keine Selbstverständlichkeit – weshalb die BBC mit ihrem Programm 50:50 den Frauenanteil untersuchte: nicht nur in den Redaktionen, sondern auch in Interviews und in den Fotos. Allein dadurch stieg die Zahl der Frauen in den Sendungen. Nachdem das Projekt zwei Jahre gelaufen war, hatte sich die Zahl der weiblichen jüngeren Zuschauerinnen um über ein Drittel gesteigert, weil sie sich mehr angesprochen fühlten. Eine Idee, die auch auf Südtirols Medienlandschaft angewandt interessant wäre.
Sprache ist ein lebendiges Konstrukt (sehr zum Missfallen einiger Dinos aus der Anti-Gendering-Ecke). Eine moderne Sprache nimmt jedoch nicht nur Rücksicht auf unter- oder schlicht falsch repräsentierte Geschlechter, sondern sollte im Jahr 2022 auch frei von kolonialistischen, rassistischen und antisemitischen Konnotationen sein. Dass dem noch nicht so ist (vor allem in Südtirol, wo wir bekanntermaßen noch einige andere sprachliche Baustellen und Sprachgruppenstereotype haben), ist zwar etwas beschämend, aber ein lösbares Problem.